Lo scrittore Stefano Sciacca portavoce della poetica del dissenso e della disillusione nelle sue opere
Stefano Sciacca, autore de L’ombra del passato, ci parla del suo Sir William Shakespeare, buffone e profeta (Mimesis 2018), il breve studio sul drammaturgo inglese e la modernità che ha destato l’attenzione del professor Stephen Greenblatt di Harvard.
Stefano, recentemente hai pubblicato L’ombra del passato, un romanzo investigativo pieno di colpi di scena e inventiva, frutto esclusivamente della tua fantasia. Sir William Shakespeare, buffone e profeta invece è il risultato di studi e ricerche. Apparentemente, dunque, si tratta di lavori molto diversi tra loro. Esiste qualche intersezione?
In effetti ce ne sono ben più di quante non si potrebbe credere a prima vista.
Una ovviamente sono io: l’autore, che impegni se stesso in due generi editoriali così diversi impiegando la medesima partecipazione, non può fare a meno di mettere in comunicazione i due piani sui quali opera. Non può fare a meno di compiere delle contaminazioni.
Non è detto che questo sia un bene, ma nel mio caso è risultato inevitabile. Ho la pretesa di ritenere che Sir William Shakespeare sia agile e appassionante almeno quanto lo è L’ombra del passato. Una lettrice che stimo molto mi ha detto di averlo trovato ricco di suspense ed esso, in effetti, possiede un andamento narrativo e risente della passione che ho investito nella sua stesura.
D’altra parte, la tesi di Sir William Shakespeare costituisce il sostrato ideologico de L’ombra del passato.
Che la società moderna, quella che all’epoca di Shakespeare era soltanto un embrione sia pure già ben riconoscibile, determina in alcuni individui un senso di ripugnanza, un bisogno di ribellione, un desiderio irrefrenabile di mostrare la linguaccia a tutto ciò che riceve la patente della rispettabilità e dell’onorabilità. Ma anche che tali pulsioni sono ineluttabilmente destinate a non trovare pieno sfogo: non possono procurare alcuna duratura soddisfazione. Insomma, la tesi secondo cui l’uomo dotato di personalità propria e autonoma, rivendicando la sua individualità di fronte a una società massificata che esige obbedienza e conformismo, è condannato alla sconfitta. Nondimeno, pur sapendo che non può esserci lieto fine, si tratta di una lotta, una rivoluzione, che vale la pena di combattere. Solo così si può dire di essere rimasti fedeli a se stessi, di aver vissuto veramente.
Ritieni che Artusio, il protagonista de L’ombra del passato, sia un individuo del genere?
L’analisi della vita e delle opere di Shakespeare, messe in relazione a quelle di altri intellettuali costretti a confrontarsi con una società autoreferenziale come la nostra, nella quale l’arte è soltanto merce, la vita non è più vita e l’affermazione di un individuo sull’altro, su tutti gli altri anzi, è la sola cosa che conti, mi hanno condotto a tracciare l’identikit del buffone tragico, la personificazione dell’umorismo inteso come poetica del contrario. Colui che osserva il ceto egemone da una prospettiva privilegiata ma distaccata e ne giudica la morale (o, meglio, l’ideologia) secondo la propria coscienza.
Artusio, nella sua insanabile contraddittorietà, nel feroce disprezzo per un mondo al quale vorrebbe non appartenere ma dal quale è stato inevitabilmente contagiato, è un personaggio profondamente shakespeariano. Si finge un dritto, si atteggia a duro, ma in realtà dubita continuamente. Degli altri come di se stesso. È amletico.
Artusio sente di non appartenere alla compiaciuta borghesia che lo circonda, non si riconosce nelle mode che questa è riuscita a imporre ad aristocratici e proletari. È un’anima senza patria temporale, è uno spirito inattuale, come inattuali sono state le considerazioni di Nietzsche e, quasi duemila anni prima, quelle di Seneca e, ancora poi, quelle di Dante e di Shakespeare, di Goethe e di Balzac, di Dostoevskij e di Pirandello.
A differenza loro, non è un letterato, un poeta o un filosofo. Ma è un ribelle. E Sir William Shakespeare, buffone e profeta non è meno ribelle di lui!
Dunque, si profila un’altra intersezione?
Sì, l’ostilità nei confronti dell’autoreferenzialità compiaciuta e bovina della Modernità borghese – intesa non come epoca storica ma come atteggiamento nei confronti del passato (la tradizione) e del futuro (il cambiamento), come culto del presente, delle sue mode e dei suoi idoli, che si vorrebbero pretendere eterni ma non diventeranno mai classici.
Ed ecco, almeno mi auguro, un ulteriore possibile incontro tra i due testi: la comunanza di lettori ai quali si rivolgono. Ritengo infatti che chiunque apprezzi L’ombra del passato potrebbe apprezzare Sir William Shakespeare, buffone e profeta e viceversa. Naturalmente si tratta di due creature diverse, ma ugualmente devote alla medesima poetica del dissenso e della disillusione che già ha animato Prima e dopo il noir, ideale spunto di partenza di entrambi queste pubblicazioni successive.
Quali sono gli elementi distintivi di Sir William Shakespeare, buffone e profeta?
Dal punto di vista stilistico, l’informalità.
Nell’edizione italiana non sono incluse né note, né bibliografia: questo ha fatto e farà storcere il naso a molti accademici, ma, per quanto discutibile, la mia scelta è stata quella di non impartire alcuna lezione al lettore, bensì di instaurare con lui una conversazione molto colloquiale.
In passato, quando scrivevo all’università articoli di dottrina e dovevo attenermi a ferree norme redazionali, non di rado le pagine dei miei contributi contenevano più note a piè di pagina che righe di testo vero e proprio. Una soluzione del genere, per quanto più conforme alla natura scientifica di Sir William Shakespeare e al metodo adottato nel compierla, avrebbe scoraggiato molti, anche solo sotto il profilo dell’impatto visivo con la pagina. E, invece, la mia speranza è quella di intercettare e accrescere l’interesse del maggior numero possibile di lettori.
Non solo addetti ai lavori, ma curiosi e rivoluzionari di ogni genere.
Eppure hai attirato l’attenzione e riscosso l’apprezzamento proprio di uno dei più noti e autorevoli addetti ai lavori, Stephen Greenblatt, premio Pulitzer, docente universitario a Harvard e studioso shakespeariano conosciuto dalla comunità accademica internazionale. Come è avvenuto il vostro incontro?
È stata l’esito di uno dei miei colpi di testa, una delle mie monellerie. Sapevo che lui aveva legami accademici e famigliari con l’Italia e ho provato a scrivergli, per sottoporre al suo giudizio il mio manoscritto in italiano. Sarà stato merito del fascino esotico di un testo in lingua straniera, comunque, il professor Greenblatt lesse tutto nel giro di un weekend e mi rispose di averlo apprezzato nel pomeriggio italiano del lunedì.
A quanto pare, mosso dalla curiosità tipica e distintiva di ogni autentico intellettuale, Greenblatt deve aver guardato oltre le anomalie formali del mio lavoro, riuscendo a coglierne e a valorizzarne gli aspetti più originali, su tutti l’approccio multidisciplinare. Questo all’estero viene considerato un punto di forza, mentre qui, al contrario, è guardato con sospetto in quanto rischia di impedire una precisa classificazione commerciale.
Ma si tratta di un mio punto fermo, il metodo a cui ho già fatto ricorso per Prima e dopo il noir, pubblicazione a proposito della quale un altro docente universitario, al quale vanno la mia gratitudine e la mia ammirazione, mi confidò di preferire un testo senza note ma dotato di idee piuttosto che il contrario.
Nel caso di Sir William Shakespeare, di quali idee si tratta?
Principalmente dell’individuazione, attraverso un confronto nel tempo e nello spazio, tra intellettuali diversi, appartenuti a società di epoche diverse, di un minimo comun denominatore nella controversa e sofferta relazione che si instaura tra intellighenzia ed establishment: l’assillo della reputazione, l’insofferenza nei confronti del culto del presente, della moda, del successo, il rapporto contraddittorio intrattenuto con l’autorità, le istituzioni, il potere e la ricchezza. In tutto ciò, senza aver la pretesa di paragonarmi a Shakespeare o ad alcun altro dei suoi fratelli di inattualità, sono stato animato da un bisogno personale di chiarire la mia posizione rispetto alla società in cui vivo ed è per questo, probabilmente, che terrei così tanto a veder Sir William Shakespeare più diffuso, conosciuto e discusso di quanto non risulti a oggi.
A proposito, so che ne stai curando un’edizione in lingua inglese.
La traduzione ormai è stata ultimata. Ora si tratterà di trovare un editore autorevole e serio, disposto a credere in questo progetto. Purtroppo non posso contare sul sostegno di alcun agente letterario (carenza della quale risento anche sul mercato editoriale italiano), ma confido nell’aiuto appassionato e competente di una giovane amica che insegna all’Università di Oxford ed è per carattere e deformazione professionale una strong advocate. Insomma, per essere del tutto sinceri, una paladina delle cause più disperate e io, per quanto creda nel valore del mio piccolo Sir William Shakespeare, confortato anche dal parere del professor Greenblatt, non riesco proprio a immaginare causa più disperata di questa!
Ma, allo stesso tempo, è vero che Sir William Shakespeare è un testo radicale e rivoluzionario: forse, il tipo giusto per realizzare la più straordinaria delle rivoluzioni, quella di un autore italiano sconosciuto che riesce ad approdare sul mercato editoriale inglese ricorrendo alla sola forza delle sue idee. Significherebbe, quantomeno, che c’è ancora speranza per i buffoni tragici dei nostri giorni!