“CARNE: VERO CIBO!” Gv 6, 51-58
In quel tempo, Gesù disse alla folla: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.
Allora i Giudei si misero a discutere tra di lor: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. Gesù disse: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”.
Qui si tocca il vertice del discorso di Gesù; il versetto 55 costituisce la punta più alta dell’autorivelazione di Gesù: La mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda. La folla, ormai scandalizzata e disorientata dalle affermazioni che ha ascoltate, si abbandona a una vivacissima discussione sotto lo sguardo attento di Gesù: Alcuni propendono per una interpretazione metaforica, come “mangiare la legge, mangiare la parola…”. Altri invece, sostengono che si deve dare un interpretazione letterale alle sue dichiarazioni tenendo presente il tono e l’insistenza delle affermazioni sul “mangiare e bere”, su “carne e sangue nella discussione interviene il Maestro, il quale però non spiega più, non discute più, ma procede con affermazioni categoriche, assolute, che lasciano ormai soltanto lo spazio per un “si” o per un “no”, cioè per il consenso o per il rifiuto del mistero eucaristico. Nei vv. 53-54, egli apre con un giuramento, impegnando la sua credibilità: In verità in verità vi dico…, e evidenzia un triplice stretto rapporto: mangiare, bere, vita eterna, prima lo propone in forma negativa, poi in forma positiva. É un espediente letterario per conferire più forza al messaggio:
Se non mangiate… e non bevete…, non avrete la vita.
Chi mangia… e beve… avrà la vita eterna.
Nel v. 54 il testo usa il verbo greco troghein col significato di “masticare, stritolare con i denti, ruminare” e intende sottolineare l’estremo realismo del pasto eucaristico. Anche nel costume ebraico, era tassativamente prescritto che gli alimenti della cena pasquale dovevano essere masticati bene. Inoltre il v. 55 ripete l’aggettivo vero: “La mia carne è vero cibo, il mio sangue vera bevanda” e vuol dire che è cibo “autentico, verace, reale”: come il cibo e la bevanda materiale alimentano veramente la vita del corpo, così la carne e il sangue di Gesù alimentano la vita dello spirito.
Nel v.56 ricorre il verbo dimorare che è tipicamente del vocabolario giovanneo con intensa ricchezza di contenuti e di significati (Gv 1,38-39; 8,31; 14,1-3; 15,4): “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui”. Gesù si riferisce all’effetto della sunzione della “carne” e del “sangue” in colui che se ne ciba: si verifica un reciproco dimorare, una mutua immanenza, una stabile intimità, una comunione di vita. È un dimorare vitale, personale e permanente. Chi riceve l’Eucaristia partecipa della stessa vita divina; e in questo senso realistico e profondissimo, “ci chiamiamo figli di Dio e lo siamo realmente” (1Gv 3,1).
Degno di attenzione è anche il v. 59 che viene escluso nel testo liturgico: “Queste cose disse Gesù insegnando nella sinagoga di Cafarnao”. “Questa indicazione non ha soltanto lo scopo di localizzare l’episodio, ma sottolinea il fatto che Gesù ha parlato in un contesto impegnativo e solenne, qual era l’assemblea del popolo di Dio riunita per la lettura sacra e la preghiera: come a dire che egli impartisce un insegnamento qualificato e autorevole. Fu appunto nella sinagoga di Cafarnao che egli diede prova della sua autorità nuova e della potenza nuova delle sue opere” (Sl, Garofalo