A tu per tu con Laura Moreni, autrice di “Siamo come le lumache”

Uscito nell’autunno del 2021, il romanzo d’esordio Siamo come le lumache (Bertoni Editore) della scrittrice Laura Moreni continua a far parlare di sé e a raccogliere pareri favorevoli dalla critica.

Siamo come le lumache, Laura Moreni

 

Una telefonata imprevista, ricevuta di domenica mattina, turba la tranquillità e la monotonia della vita di Tilda che, costretta a partire all’improvviso, affronta con riluttanza un ritorno alle sue zone d’origine da tempo rimandato. Già in passato ti sei occupata della figura femminile, oggi attraverso Tilda fai lo stesso?

In passato mi sono occupata di una questione storica, cioè dell’affermazione della figura femminile all’interno della sfera pubblica, attraverso il lavoro, l’apporto dato e i (lenti) cambiamenti sociali; e anche attraverso il raggiungimento di luoghi consacrati al maschile, in cui le donne, per ottenere delle migliorie, hanno dovuto scontrarsi e adeguarsi a un linguaggio e a una modalità che fino a quel momento erano loro estranei.

Nel mio romanzo, invece, attraverso la storia di Tilda, ho cercato di raccontare le dinamiche, le reazioni e le insicurezze che possono segnare l’intera esistenza di una donna. Tilda soffre di obesità, una patologia che non si affranca da un riflesso esterno e quindi, purtroppo, da un pregiudizio sociale (ancora), e in qualche modo anche pubblico. Nel libro Tilda è capace di leggersi, di capirsi, e forse di cambiare rotta, ma ciò che la caratterizza è l’impossibilità di sentirsi “a posto”, di appartenere a una situazione, a un luogo, nonostante il romanzo sia ambientato nel 2019, cioè nella nostra attuale realtà; un’epoca in cui, all’apparenza, ognuno è libero di essere e di apparire.

Sono molto attratta dai meccanismi dell’animo umano, e ancor più da quelli femminili: le donne hanno una modalità più complessa, rispetto agli uomini, di espressione e di realizzazione di loro stesse. Credo purtroppo che secoli di oppressione culturale e sociale abbiano lasciato un’impronta tutt’ora visibile: resiste una complicanza di fondo, una difficoltà latente nella coscienza, comune e individuale, a vivere secondo una personale libertà; non ha nulla a che vedere con la questione femminista, mi riferisco a una libertà interiore di crescita, di affermazione, di rispetto della propria esistenza, che dovrebbe dipendere da una propria etica e non dal riconoscimento di sé dettato dai ruoli. Ancora troppe donne, secondo me, si identificano in qualità di mogli, madri, figlie, alcune nel loro lavoro o nel loro aspetto, ma fanno fatica a trovare se stesse quando sono slegate dalle etichette. Credo che sia questo, il passaggio che manca.

Sull’identificazione delle donne con il loro ruolo sto lavorando anche adesso, nel romanzo che sto scrivendo. Sto cercando di rompere uno schema, e anche un tabù; ci tengo molto perché sento che in questo periodo le donne ne hanno un bisogno disperato: c’è troppa confusione e troppa aspettativa. E il concetto di fluidità, ormai onnipresente nel linguaggio pubblico e sociale (di nuovo), temo stia rendendo ancora più insicura la sensibilità femminile nel processo di riconoscimento e validazione di sé.

Per farla breve: non credo che i cambiamenti possano provenire da un’emancipazione esterna se essa non scaturisce da un’emancipazione strutturale e profonda della persona.

È stato coralmente definito un romanzo di consapevolezza e riflessione. Desideravi che fosse letto proprio attraverso questa chiave interpretativa?

Non lo so, non ne avevo idea. Credo però che sia la chiave di lettura più appropriata, perché è un romanzo un po’ particolare: per alcuni versi si avvicina al romanzo di formazione, ma per altri se ne distacca. Non è un romanzo di avventura, perché ho narrato una storia normale, di piccole quotidianità, che non definirei avventurosa. Eppure è la storia di una vita, anzi di quattro vite, che forse non hanno nulla di speciale se non, effettivamente, il percorso individuale di cadute, risalite e maturazione di ognuno dei protagonisti. È tutto lì. Per questo si parla di consapevolezza, perché si cresce imparando dagli errori, valutando le conseguenze che hanno avuto in noi e negli altri. E qui c’è la riflessione. Spesso non ce ne rendiamo conto, ma investire su noi stessi, dare un senso alla nostra vita, vuol dire innanzitutto riflettere su chi siamo, su cosa abbiamo ottenuto, sulla nostra direzione. Altrimenti si gira sempre in tondo. Per andare avanti sfruttando al meglio le nostre esperienze ci vuole, ancora, consapevolezza. Torniamo sempre lì.

Guardare la propria vita a un certo punto è assolutamente necessario o si può anche tirare avanti facendo finta di niente? Quali conseguenze, secondo te, si palesano in entrambi i casi?

Ritengo che sia assolutamente necessario, ma io sono una persona molto introspettiva; per me sarebbe impossibile procedere senza interrogarmi, senza osservare, senza soffermarmi via via e stilare un bilancio. Però non ho mai avuto paura dei cambiamenti, quando sono necessari li affronto di petto: sono fermamente convinta che il cambiamento nella vita corrisponda a un’evoluzione, e quindi non vada mai rifiutato. Ovviamente cambiare significa soprattutto lasciare indietro qualcosa, e spesso questo fa soffrire. Però la vita è così: si perdono amori, persone care, lavori, situazioni, amicizie. È impossibile trattenere tutto, fissarsi sullo status quo. Si cresce, cambiano i gusti, le esigenze, gli interessi. È un processo sano.

Credo quindi che fermarsi a osservare, muoversi di conseguenza, aiuti a non soccombere. Ci si abitua ad essere fluidi, pronti a tutto ciò che viene offerto o tolto, anche se davanti a certe prove, come un lutto o una malattia, pronti non si è mai. Si sviluppa però una capacità di reazione maggiore, che è legata all’amore per noi stessi.

Al contrario, chi tenta di tirare avanti per inerzia si cementa all’interno di una zona di comfort che, se per caso viene infranta, può portare a un senso di sconfitta totale, a uno sconforto che facilmente diventa inedia.
Conosco molte persone che hanno sempre rifiutato i cambiamenti, che tentano di “tirare avanti”, come dici, facendo finta di niente; inevitabilmente diventano persone insoddisfatte, che tendono a invidiare gli altri e che non vedono il bello nella loro vita, guardano solo alle cose negative. Penso siano profondamente infelici, ma talmente abituate a esserlo da non accorgersene più.

Infine, se vorrai rispondermi, la stesura di questo libro è servita per permetterti di chiudere dei cerchi del tutto personali?

Da un certo punto di vista, sì. Volevo affrontare il tema del disagio legato al sovrappeso, all’obesità, ma attraverso le mie riflessioni: condividerle tramite la voce di Tilda mi ha terrorizzata, mi sono sentita nuda; mi ha aiutata però a guardare il mio problema con più obiettività, a parlarne, e a temerlo un po’ meno. Andando alla ricerca delle mie cause, ben prima della stesura del libro, già avevo chiuso molti dei miei cerchi “in sospeso”. Poi, dopo il mio “salto”, si sono aperte nuove situazioni, alcune addirittura con persone che credevo perse per sempre. Qualcuno se ne è andato, qualcuno è ritornato: la vita offre occasioni, è sempre in divenire.

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