Era lo scorso anno, esattamente il 18 marzo, quando i camion dell’esercito portavano via da Bergamo decine di bare.
Da quel momento l’Italia si è resa conto di cosa volesse dire morire per il Covid-19.
“Oggi è una giornata piena di tristezza e di speranza. Lo Stato c’è e ci sarà. Questo è il giorno in cui dobbiamo sentirci tutti ancora più uniti, a partire da questo luogo. Avete vissuto tempi terribili”.
Si è espresso così, ieri 18 marzo, Giornata Nazionale in ricordo delle vittime di coronavirus, il premier Mario Draghi lo ha detto dopo essersi soffermato, davanti alla corona di fiori deposta sotto la lapide, dedicata alle vittime del Covid-19.
Un Paese avvolto dalle spire di un virus silenzioso e letale, che non guarda in faccia a nessuno.
Una catastrofe. Un bollettino di guerra con morti infiniti. Ci siamo accorti di quello che succede, abbiamo pianto, eppure poco dopo c’è chi ha preferito guardare dall’altra parte, tanto ‘è successo al Nord’. Dai primi slanci di solidarietà ed anche di cauta attenzione tra disinfettanti, mascherine e guanti, si è passati facilmente ad incoscienza e cinismo.
Il virus è cosa di chi capita, tutto archiviato, tra negazionisti che hanno dato il colpo di grazia a quei poveri morti, con le loro ‘assurde lugubrazioni’, mentre rimane impressa la foto del saluto della pattuglia della Polizia Stradale al passaggio del convoglio militare con le bare sull’autostrada.
Prevale, quindi, la voglia di vivere, affollando le vie dei centri storici, il litorale, senza aver cura di quello che è stato, di quello che è ancora. Tutto comprensibile, ma triste.
Ora c’è l’ansia dei vaccini, la paura.