Don Fusari, il sacerdote influencer

Quasi 61.000 followers su IG per Don Giuseppe Fusari. Sacerdote bresciano, protagonista delle cronache social per un insolito approccio al mondo religioso, ha una  grande passione per l’arte che è diventata anche un lavoro. Il suo è un curriculum ricco di pubblicazioni, compresa una docenza all’Università Cattolica di Brescia (insegna Storia dell’Arte Italiana nel biennio specialistico).

Classe 1966, dopo gli studi teologici e l’ordinazione presbiterale, si è laureato in Lettere Moderne e quindi ha frequentato la Scuola di Specializzazione in Storia dell’Arte. Ha anche conseguito il dottorato in Storia moderna. È stato perfino Direttore del Museo Diocesano di Brescia. Si è anche dedicato all’attività artistica realizzando dipinti su tavola, dipinti murali e vetrate per edifici religiosi del bresciano e del mantovano. Oggi si dedica soprattutto all’incisione, sperimentando diverse tecniche consone con la sua intenzione espressiva.

Lo incontriamo a ridosso dell’opening della exhibition che si inaugurerà il prossimo 18 luglio a Palazzo Maffei Marescotti, per la quale ha scritto un interessantissimo testo critico. L’esposizione “Io sono Tu sei” è un faccia a faccia sorprendente tra Cinzia Bevilacqua e Ferdinando Fedele.

Due artisti di indiscusso talento, preparazione, esperienza, che nonostante utilizzino un diverso linguaggio sono stati capaci di creare un dialogo, spontaneo ed interagente. Stili, tecniche, tematiche in un raffronto intrigante grazie ad un curatore di riconosciute esperienza ed abilità, il Prof. Claudio Strinati. La mostra, ospitata dalla Galleria La Pigna, unisce la pittura – forma specifica di arte visiva – di una appassionata Cinzia Bevilacqua, all’arte visiva ispiratrice di Ferdinando Fedele. La visione è per entrambi mezzo di espressione e veicolo di profondi messaggi. Bevilacqua usa il pennello per raccontarsi; Fedele preferisce la performance, l’incisione e la grafica – e derivati di indagine sulla fotocalcografia, sull’offset e sulla cianotipia, nonché approcci verso la stampa digitale e lo stencil – per far comprendere la sua ricerca artistica.

Il colloquio tra i due creativi sarà visitabile ad ingresso libero dal 18 luglio fino al 31 luglio 2025 – e dal primo all’8 settembre. Don Fusari ci anticipa con la nostra chiacchierata questo appuntamento romano, che tratta in chiave contemporanea il Mito di Narciso e l’ossessione per i social.

Che cos’è l’autocoscienza riflessa e in che modo il mito di Narciso ne è un esempio fondamentale?

Caratteristica dell’uomo, tra tutti i viventi, è quella di sapersi riconoscere, di saper riconoscere se stessi nell’immagine riflessa (per Narciso lo specchio d’acqua) e riconoscersi nella continuità del tempo anche col variare della forma esteriore. Questa autocoscienza non è una semplice constatazione, ma richiede una riflessione – anche inconscia – che permetta alla persona di continuare a riconoscersi nel corso del tempo in quegli elementi che sente come suoi propri. Narciso è l’emblema estremo di questa autoaccettazione (non è solo l’immagine sbiadita dello smodato amore per se stesso) che non si accontenta di vedere riflessa la propria immagine, ma la vorrebbe possedere e quindi fermare e contenere.

Qual è il duplice significato del verbo “riflettere” e come si lega alla comprensione dell’immagine umana?

In parte ho risposto qui sopra, ma credo che questa sia una precisazione importante: riflettere è sempre vedersi e comprendersi. Questi sono i due significati del verbo riflettere: per il mio cane riflettersi nello specchio genera indifferenza non solo perché non si riconosce, ma perché questa immagine non riflette in lui alcun tipo di reazione emotivo-psicologica. Nell’umano l’immagine riflessa genera quel rapporto con l’autocoscienza che pone la domanda (la riflessione) sul rapporto tra quello che sono e quello che vedo. Da qui il problema dell’“immaginarsi” diversi, la volontà di piegare l’una o l’altra immagine al desiderio di essere, il dramma del non riconoscersi nel riflesso, dal quale vengono molte patologie dell’immagine.

Qual è la differenza chiave tra il ritratto e l’autoritratto secondo il suo testo, in relazione alla volontà del soggetto?

Potrei riassumerlo in una sola parola: nella falsificazione. Il ritratto è il primo atto di affidamento del soggetto a un altro che lo interpreti: la volontà di “aggiustare” qualcosa, dalla ruga a un tratto dell’espressione, sono falsificazioni generate dalla volontà non solo (o non tanto) di apparire più belli, ma di assomigliare di più all’immagine di sé che si sente come interiore. L’autoritratto elimina il medium: l’artista dipinge se stesso e qui la falsificazione arriva al grado massimo perché l’artista possiede insieme l’immagine di sé, la volontà di falsificare e i motivi per farlo. Diciamo che l’autoritratto è il punto più lontano dall’oggettività, ma il più vicino all’io psicologico.

In che modo il “selfie” e la fotografia moderna hanno trasformato il concetto di immagine di sé rispetto all’idea di “io sono” o “tu sei”? 

Diciamo che la fotografia sta al selfie come il ritratto sta all’autoritratto, ossia la presenza o l’assenza del medium, del soggetto che inquadra e scatta. Nella fotografia c’è qualcuno che interviene a interpretare, anche se con una tecnica diversa dalla pittura o dalla scultura; nel selfie tutto è, come nell’autoritratto, definito dal soggetto che si inquadra e si scatta. Il passaggio è, tuttavia, fondamentale perché, rispetto all’autoritratto, il selfie obbedisce a un bisogno di conformismo sociale che rende accettabile quell’autoritratto. Possiamo dire che il rapporto io sono-tu sei si sbilancia (paradossalmente) verso il tu che decide chi io sono sulla base di un io-immagine imposto dall’accettazione comune. Difficile? Basta guardare la standardizzazione delle inquadrature e delle espressioni dei selfie.

Secondo la sua visione critica della exhibition di Bevilacqua e Fedele, quale ruolo e compito ha l’arte di fronte ai cambiamenti nella percezione dell’immagine di sé e alla standardizzazione dei selfie?

Ha il ruolo che ha sempre avuto: essere sentinella, lanciare il grido che cade nel vuoto, ma che rimane profetico e urgente. Si parla spesso (e spesso a sproposito) di arte contemporanea come provocazione e per questo si invocano estremismi noti a tutti (e che io seguo con attenzione e ritengo tutt’altro che superficiali); eppure anche l’elaborazione estrema dell’immagine sulla quale interviene Fedele è, ancor più insospettabilmente, la placida descrizione del vero di Bevilacqua, pongono in essere questa stessa provocazione: l’arte è riflessione, porta alla riflessione, mette in circuito l’insospettabile lì dove rimarrebbe a standardizzazione. Quello che cambia, insieme all’immagine, è il senso della persona e del suo ruolo davanti alle cose che l’arte, e non il documento istantaneo, riesce a intercettare in quanto atto di riflessione.

L’arte, attraverso la rappresentazione del “non-sé”, rivela la condizione umana attuale. Ci illustri meglio secondo lei in che modo questo avviene.

È il modo di consumare le cose, compresa l’immagine, che crea l’accumulo di non-sé. Si è detto del selfie, ma ancor più non-sé è l’intervento attraverso i filtri, i ritocchi, le deformazioni, che mostra quanto quello che appare non-è quello che mostra, ma solo quel tu-vuoi-che-sia-così che permette l’uso e il consumo. È l’occhio deformante del possibile che allontana dall’accettazione del sé e costringe a sottomettersi all’idea del bisogna essere.

Per concludere: lei è uno storico dell’arte, ma anche un prete. Che priorità lei pensa che occupi, in una creazione artistica, l’aspetto spirituale di chi crea?

L’elemento spirituale è necessario alla creazione artistica, anche alla più laica. Lo spirituale è l’elemento che costituisce la base del riconoscibile. Torniamo all’inizio: è l’autocoscienza riflessa del fare artistico perché l’artista, quando inizia il suo atto (che si definisce creativo, e a ragione), parte da un cumulo di riflessione interna, la si può chiamare ispirazione se si vuole, o anche folgorazione, ma è l’istante nel quale prima non c’era niente e poi c’è. Il modo non è inspiegabile, ma è proprio, e semplicemente questo elemento spirituale che consiste nel concentrarsi della riflessione che si specchia nella creazione artistica.

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